Si chiamavano Camilla, Cecilia, Elena o Jacoba. Nel ’600 avevano circa vent’anni, alcune qualche decina di anni in più, vivevano di espedienti nei quartieri più poveri di Bologna - da via Fondazza a porta San Mamolo incrociando via del Pratello - e sono passate tutte sotto il fuoco incrociato del tribunale dell’Inquisizione. Il loro vicinato non le chiamava streghe, le tollerava. Ma è solo una questione linguistica, perché, delle «figlie del demonio» hanno fatto la stessa fine. Le loro storie sono raccolte nel volume a cura dei docenti dell’Alma Mater Claudia Pancino e Umberto Mazzone, Sortilegi amorosi, materassi a nolo e pignattini (edizioni Carocci) […]
Il volume, intanto, raccoglie quattro differenti saggi tratti da altrettante tesi universitarie che hanno indagato le carte processuali del XVII secolo conservate negli archivi degli antichi tribunali. Tra questi scritti dedicati a Bologna e uno al Salento. Attraverso le trascrizioni degli interrogatori, sono tanti gli elementi che saltano agli occhi. Prima di tutto, la modestissima estrazione sociale delle donne, prevalentemente prostitute, «senza mestiere», o, come le petroniana Emilia Bonetti - «conosciuta come la Spadazza, moglie di un pittore che fa il falegname ed è cieca da un occhio destro» - dedita a un lavoro allora considerato estremamente umile, ovvero la «pilatrice», colei che toglie i peli superflui a domicilio antesignana delle nostre (indispensabili) estetiste. A finire nel mirino della Chiesa, però, non erano certo i servizi offerti dalle giovani, nemmeno di quelle che, in mancanza di altre occasioni, non potevano far altro che offrire il proprio corpo. «Queste donne - spiega la Pancino - praticavano e si tramandavano malie, incantesimi, formule e riti magici, soprattutto sortilegi amorosi per attrarre i favori di un uomo. A scatenare l’interesse dell’inquisitore erano i metodi e gli strumenti, l’utilizzo di pratiche sacramentali. Le donne, inoltre, rubavano l’acqua santa, le candele o gli incensi dalle chiese per portare a termine i loro sortilegi». La pratica giudicata più sacrilega era, continua la professoressa, «il battesimo della valeriana o del sangue mestrua le. Una volta "battezzati", secondo un preciso rituale che ricalcava il sacramento, la pianta o il sangue si consideravano icone».
«Strega che vola con demonio» affresco nel Duomo di Orvieto. In alto, la stanza dell’inquisitore nel convento di San Domenico che era sede del tribunale dell’lnquisizione dotati di poteri magici e dovevano esser fatti ingerire dall’oggetto del proprio amore». Altro rito diffuso, «colpevolmente» ispirato alle liturgie religiose era quella dell’olio santo: la sotanza avrebbe dovuto essere spalmata sui lobi dell’uomo nel momento dell’atto sessuale per legarlo indissolubilmente alla compagna. Meno «eretico» il rito del coltello, per causare impotenza: bastava, insomma, piantare l’arma sotto il letto con il manico rivolto verso il basso senza pronunciare alcuna formula. «In realtà – precisa Mazzone - in queste "stregonerie" non c’era nulla di eretico. Il timore delle grandi eresie che minavano le verità della Chiesa erano già finite nel secolo precedente. Su quelle si era già concentrata l’Inquisizione del secolo precedente. Nel ’600, ciò che preoccupava le autorità ecclesiastiche erano i comportamenti popolari, le magie caratterizzate da un uso improprio dei riti e degli strumenti sacri. Era necessario, in sostanza, ribadire l’esclusività del potere della Chiesa sui corpi e sulle anime».
Difficile, oggi, capire come un «pignattino» in cui si lasciavano bollire capelli, urine e acqua santa potesse scalfire tale potenza. «Ma gli archivi dell’Inquisizione, compresi quelli del San Domenico - fanno sapere gli autori – contengono un patrimonio di altre mille storie. Pronte a spiegare la storia».