Vincenzo Buccheri è scomparso più di un anno fa ma la sentiamo ancora tra noi. Lo ricordiamo con uno stralcio dal suo Lo stile cinematografico, appena pubblicato da Carocci (pp.187, € 17) e contenente, tra gli altri, un illuminante scritto su Un mondo perfetto «Classicità o anticlassicità? Qual è la parola definitiva su Eastwood, comunemente presentato come grande artista popolare proprio perché classico o meglio ultimo dei classici? Eastwood non si sottrae ai suoi tempi, ma non è schiavo: il suo stile, la sua idea di cinema secondo noi sono neoclassici, là dove neoclassico non significa estraneità al postmoderno, ma modo alternativo di viverlo. Un modo che alla frammentazione, al manierismo e all’amoralità programmatica sostituisce la ripresa della auctoritates, la linearità e l’interrogazione morale, ma dentro un contesto culturale e stilistico in cui il passato è perduto, l’innocenza irrecuperabile e il presente va vissuto in tutta la sua dolorosa imperfezione. Non è forse questo, in ultima analisi, il vero significato di Un mondo perfetto?»
Di "stile" parlavano già gli antichi romani, ma è solo dal Settecento che il termine diventa sinonimo di modo di espressione individuale. Ci si riferiva prima alla letteraria, poi alle arti plastiche, ora a tutto, cinema compreso. Ma lo si scopre ogni giorno quanto sia diffide riscontrare un vero e proprio stile trale nome visioni (per esempio Ridley Scott con Robin Hood: si può definire il suo modo industriale di fare cinema come tale?). Un libro postumo di Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico (Carocci, pp. 187, € 17),dice cose importantissime sul tema partendo da una bella intuizione, conseguenza di discussioni e riflessioni che l’autore ha condiviso con Ruggero Eugeni e Francesco Casetti. Lo stile viene determinato dall’autore (o dagli autori), dal contesto produttivo, e fin qui ci siamo, ma anche dallo spettatore, o meglio delle sue aspettative (di cui chi realizza un film tiene conto) e dalle "pratiche sociali" delle quali gli spettatori, in quanto avanguardia ( il termine è nostro) di una società, si fanno portatori o "attori". Vincenzo Buccheri fonda praticamente un nuovo filone di studio: la sociostilistica, che applicata al cinema permette di individuare il lavoro simbolico di ogni società, nel proprio tempo, attraverso la sua elaborazione su grande schermo, vale a dire le sue storie, le sue rappresentazioni. Lo stile cinematografico, lo ammette anche Casetti nella prefazione, diventerà un’opera di riferimento per chiunque voglia occuparsi dei rapporti tra cinema e mondo con una certa serietà (e profondità), a riprova dell’unicità del suo autore. Di Vincenzo, scomparso poco più di un anno fa e alla cui figura di studioso l’Università di Pavia ha di recente dedicato un convegno, per fortuna resta solo il buco nero che (ci) risucchia nel rimpianto, ma anche i saggi, gli scritti, le appassionate recensioni di "Segnocinema", così preziose così attuali. A rileggerlo, si scopre per esempio che le cose più stimolanti e intelligenti sul cinema italiano dell’ultimo decennio le ha scritte lui. Anche quest’ultimo libro dimostra come si possa tranquillamente volare alto negli argomenti e nel linguaggio, in un sistema editoriale chiaramente accademico, con una trasparenza esemplare. Un esercizio di critica che procede per gradi, coglie il senso delle cose, libera la testa.